Salutiamo Gaza e la Striscia accompagnati da tanti interrogativi
circa le sorti di questo lembo di terra e della sua popolazione e ripercorriamo
a ritroso tutta la trafila già affrontata per l’ingresso. Simpatico diversivo
al check point di Hamas, dove io e Claudio (dalla folta e riccia criniera) al
controllo passaporti veniamo scambiati per David Villa e Carles Puyol,
rispettivamente attaccante e difensore/capitano della squadra di calcio del
Barcellona (squadra molto in voga nella Striscia insieme ai rivali del Real
Madrid) e della nazionale spagnola. I torvi esponenti dell’organizzazione
politica scoppiano in una fragorosa risata all’interno del gabbiotto attirando
l’attenzione di tutti noi che attendiamo fuori : )
Al valico di Erez
questa volta veniamo anche “passati” al Body Scanner
(personalmente ancora mai visto in funzione in nessun aeroporto). Ad attenderci
ritroviamo Mahmoud e il suo furgoncino, sul quale riprendiamo le nostre
postazioni in direzione Tel Aviv, dove abbiamo deciso di fare una veloce
visita. Prima ci accomiatiamo da Silvia, Marco e Dario, ringraziandolo
sentitamente per l’appoggio nei nostri giorni gazawi e complimentandoci
per il suo lavoro comprensibilmente non semplice. A bordo della loro auto
puntano l’Egitto per qualche giorno di meritata vacanza.
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Giaffa |
A tarda mattinata arriviamo a Tel Aviv fermandoci a Giaffa,
località
marittima situata pochi chilometri più a sud e porto storico del Paese. Si respira decisamente tutta un’altra atmosfera rispetto alla
Striscia e godiamo della magnifica vista a picco sul mare, scendendo poi via
via verso il porto attraverso i numerosi vicoli e cunicoli che si fanno largo tra
gli edifici in pietra. Percorriamo a piedi il lungomare sotto il sole qui più
intenso fino a fermarci a pranzare in un locale vista mare. Sulla spiaggia
qualcuno fa già il bagno … mentre a pochi metri qualcun’altro entra in acqua in
groppa ad un cavallo che si libera del suo “pesante fardello” : ) … per gli
sguardi sbigottiti dei natanti distanti solo pochi metri! : )
Ci concediamo un veloce giro tra le bancarelle del mercato
locale e qualche fresco succo per rintuzzare la calura, mentre quattro simpatici
e attempati signori attirano giocoforza la nostra attenzione sfidandosi
energicamente a quella che sembra una sorta di briscola locale ai bordi del
marciapiede, con tanto di fragorosi sfottò e vigorosi colpi di mano sul
traballante tavolino.
Ritorniamo alla base a Gerusalemme in tempi relativamente
brevi nonostante il fitto traffico verso la città, grazie allo “scafato” Mahmoud
che, seguendo un altro furgoncino suo collega, prende un paio di scorciatoie
che ci catapultano direttamente appena fuori la zona centrale. Deve essersi
appena conclusa qualche funzione religiosa in qualche sinagoga in quanto nelle
strade si riversano coloni rigorosamente in abito ufficiali nero e Peot
(i famosi boccoli ai lati della testa che cadono sulle spalle) con tanto di
famiglie al seguito. Notiamo che la prole numerosa non è prerogativa unicamente
arabo/palestinese e che, anche se di età
diversa, i figli vestono tutti nel medesimo modo all’interno della stessa
famiglia. “Curioso” anche l’abbigliamento tipico femminile: ci dicono che le
donne ebraiche si rasino i capelli indossando poi una parrucca ed il consueto
foulard, in una mise dal vago sapore Amish.
ll gruppo si divide tra chi va in visita
alla Basilica del Santo Sepolcro,
solo “sfiorata” dall’esterno il primo giorno in città, e chi preferisce
perdersi per altri lidi turistico/spenderecci avendola già visitata in
precedenti viaggi in loco. Io sono tra i primi e mi tuffo insieme ad Obe,
Grazia e Paola (riminese) nel caotico formicaio all’interno della Basilica.
Abituati al dualismo ebraico/musulmano, qui vige quello cattolico/ortodosso. La Basilica ingloba sia quella che è ritenuta la “Collina del Golgota”, luogo della crocifissione di Gesù Cristo, sia
il Sepolcro scavato nella roccia,
dove il Nuovo Testamento riferisce che questi fu sepolto. Subito
all’entrata si trova un lastrone in pietra lungo il quale Gesù sarebbe stato
adagiato e sopra il quale i fedeli si adagiano a loro volta in preghiera sofferta
strofinandoci vorticosamente sopra oggetti vari e tessuti. Attorno all’Edicola del Sepolcro si accalcano i
visitatori divisi in cattolici e ortodossi e l’entrata a folate è gestita da un religioso, non senza qualche
poco edificante accenno d’isterismo collettivo. Grazia, la sola tra noi
disposta a mettersi in fila ed entrare all’interno del sepolcro, non potrà poi
nemmeno spiegare quello che ha visto, in quanto quasi spinta al suo interno,
fatta inginocchiare e poi subito rispedita al di fuori.
La sera ceniamo al ristorante del Jerusalem Hotel, dove ci raggiunge
l’amico Pepe, previamente contattato,
con la sua ragazza Karla. Compagno di
viaggio mio e di Obe in Costa Rica nel 2004, Pepe è costaricano di radici
ebraiche e si è trasferito qui da qualche anno. Mentre il resto del gruppo
rincasa, io e Obe proseguiamo la serata con loro nella zona commerciale, dei
bar e della “movida” di Gerusalemme Ovest. Il tempo di aggiornare le nostre
vite e rinverdire i bei ricordi davanti un paio di birre ed è già tempo anche
per noi di rientrare per la nuova levataccia del mattino dopo. Salutiamo Pepe e
Karla nella strada illuminata e deserta di Gerusalemme Est proprio al cospetto
della Porta di Damasco. dandoci
appuntamento in Italia.
Sveglia, colazione e partenza, ovviamente sulla Mahmoud-mobile! Direzione:
l’accampamento beduino Jahalin di Abu Hindi e la sua “Scuola di bambù”, secondo progetto di VDT sul territorio. Nei
prossimi due giorni “danzeremo” sul confine con la Cisgiordania
(o anche West Bank). Il tempo e
i chilometri passati sul pulmino ci daranno modo di osservare ancora più
attentamente il contesto circostante, nutrendo oltremodo le nostre perplessità.
Ben evidenti sparsi lungo le valli e sopra le colline si riconoscono infatti
gli insediamenti dei coloni, a volte nel mezzo del nulla altre volte
scientemente posizionati a ridosso di villaggi arabo/palestinesi,
soverchiandoli o bloccandone passaggi e vie di accesso. I tetti di mattone
rosso caratterizzano solitamente questi edifici “coloniali” e la strategia
risulta fin troppo lampante anche ad occhio nudo: si procede prima al
posizionamento di prefabbricati/container per occupare fisicamente il territorio
(magari allontanando forzatamente chi già vi risiede) e permettere un primo
insediamento umano per poi, in rapida successione, rimpiazzarli con degli
effettivi edifici in pietra fino a creare dei veri e propri agglomerati urbani
… e tutto questo in modo totalmente arbitrario e coattivo, in barba a ogni
sorta di accordo ufficiale, nel totale silenzio (o quantomeno assenza di
fattive e vincolanti riprovazioni) di qualsivoglia istituzione governativa
internazionale. Ovviamente l’accostamento coi “dirimpettai” villaggi arabi è
impietoso, a cominciare dall’approvvigionamento idrico, difficoltoso o assente
in alcuni di questi, mentre in alcuni insediamenti coloniali sono ben visibili
piscine, piantagioni rigogliose e ogni altro genere di “comfort”. Le mie
personali perplessità aumentano, però, constatando come anche in questi
insediamenti, il più delle volte, per quanto nell’agio si viva a loro volta
all’interno di fili spinati, muri, torrette di controllo, cancelli e ogni sorta
di barriera protettiva possibile in una paradossale e ugualmente sconcertante
“auto segregazione”… che per certi versi mi risulta ancora più triste in quanto
volontaria (e non imposta).
In prossimità di Abu
Hindi conosciamo il barcellonese Alberto, giovane architetto che insieme
ad altri colleghi ha concepito (visto le numerose difficoltà logistiche e di reperimento dei materiali più idonei) e
realizzato la scuola (anche dando il suo proprio apporto manuale e di fatica) e
la simpatica Inam, operatrice locale
di VDT.
La vallata che introduce al
villaggio, però, è quanto di più triste (se fosse possibile) abbiamo potuto
vedere: il campo sorge infatti a valle della maggiore discarica della zona,
utilizzata sia dalla Municipalità di Gerusalemme, sia dalla colonia limitrofa.
L’area è disseminata da sacchetti di plastica (e ovviamente altro) che il più
delle volte svolazzando liberamente fermandosi intrappolati tra i rami di
qualche arbusto o pianta avvolgendoli con i conseguenti danni ambientali che si
possono figurare. In questo scenario è stato volontariamente deciso di
trasferire (ovviamente coercitivamente) il villaggio beduino e già solo questo
dà la misura della considerazione (nulla) che godono queste comunità agli occhi
del governo israeliano … e non solo.
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Abu Hindi |
Passiamo un piccolo sottopasso adornato dai disegni e le scritte
di ivan, poeta di
strada e artista, co-fondatore di Art Kitchen, superato il quale
arriviamo al villaggio: poche sparute baracche, una cisterna per l’acqua e un
bel canestro da basket con tanto di tabellone nel bel mezzo del nulla … più in
fondo la “Scuola di bambù”. Anche
qui ci accoglie il Mukhtar ma
purtroppo i bambini oggi sono impegnati in una “gita” fuoriporta. Arrivano non
solo dal villaggio, ma anche da diversi altri limitrofi, ovviamente i più a
piedi e percorrendo ogni giorno chilometri sia in andata che in ritorno. Questa
scuola è delimitata da una semplice recinzione e si sviluppa anch’essa a mò di
corte, con tutte le stanze e le aule tutt’intorno. Alberto ci parla di tutto il
lavoro e lo studio impiegati nella realizzazione, la scelta dei materiali e
delle tecniche al fine di ottimizzare, tra le altre priorità, la ventilazione,
l’isolamento e l’approvvigionamento idrico (la comunità non è collegata
all’acquedotto, diritto riservato alle limitrofe colonie, e
l’approvvigionamento si realizza tramite una canna in gomma da 2 cm di diametro, passibile di
frequenti rotture e infiltrazioni). Entro in quella che pare essere l’aula dei
maestri (qui tutti uomini a differenza di Um
Al Nasser) che, infatti, sono quasi tutti presenti a discutere tra loro in
maniera rilassata, non capisco se di argomenti didattici o meno. Mi viene
offerto del caffè e faccio due chiacchiere in inglese con qualcuno di loro
chiedendo le materie insegnate … è anche in allestimento un’aula di
computazione! Nel cortile c’è un altalena senza sedili; pare che il Mukhtar li faccia smontare alla sera
dopo la chiusura della scuola, in quanto qualche bambino potrebbe essere
tentato di entrare fuori dagli orari scolastici per giocare : )
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Accesso a Khan Al Ahmar |
Viste le numerose
condizioni avverse, il lavoro svolto da Alberto e dai suoi collaboratori
risulta davvero ancor più lodevole, ma è già tempo di rimontare sulla Mahmoud-mobile in direzione dell’altro accampamento beduino di Khan Al Ahmar e la
sua “Scuola di gomme”, costruita nel 2009 con duemila pneumatici,
argilla e legno e sotto perenne istanza di demolizione. Accoglie un centinaio di bambini e bambine dai
sei ai dieci anni, che altrimenti sarebbero costretti ad abbandonare gli studi. L’accesso al villaggio è qualcosa di a dir poco avventuroso, in
quanto praticamente chiuso dal passaggio della superstrada :/ Vi entriamo
quindi attraversandola a piedi , tra il passaggio di un auto e l’altra!
Al nostro arrivo è in pieno corso una grande festa; tutti i
bambini, di diverse età, scorazzano, giocano, cantano e ballano nel villaggio,
tappezzato da bandiere palestinesi, in abiti tradizionali o in divisa
scolastica e campeggia all’ingresso un enorme cammello con baldacchino che
servirà poi per le cerimonie finali. Una bambina in divisa scolastica dallo
sguardo sorridente e molto dolce si accosta subito incuriosita a noi, io
l’avvicino piegandomi verso di lei per salutarla e lei inaspettatamente mi da
un bacio lasciandomi totalmente sorpreso : ) Giriamo così un po’ spaesati, fino
ad un “area congressi” dove ci dicono stia parlando un membro del governo
palestinese. Viene annunciata la nostra presenza, visitiamo le aule e passiamo
un po’ tempo coi bambini fino al momento, ancora, di dover salutare e a
malincuore ritornare al pulmino … ovviamente dopo aver ri-attraversato a piedi
la superstrada :/
Muoviamo quindi in rapida successione verso il villaggio di Anata,
dove il nostro Mahmoud fa il suo ingresso e passaggio
trionfale salutando tutti quanti; ci dice infatti di essere originario di qui.
Visitiamo la
Cooperativa Femminile SilverTent dove lavora anche Maria Luisa, altra operatrice di VDT.
Visto l’orario, ormai primissimo pomeriggio, pranziamo
qui grazie ad Alberto che ci raggiunge con l’auto piena di … Maqluba!
(mentre qualcuno di noi comincia a mostrare, per quanto sempre squisito,
sintomi di intolleranza al riso : ) ).
L’occasione è sempre buona per discutere su quanto visto e ci
circonda, sulle impressioni e i pensieri personali, discorsi evidentemente al
di sopra delle nostre esistenze che accendono però, sempre nei limiti di un
civile e costruttivo scambio di opinioni, l’animo di qualcuno. Finito di
pranzare visitiamo la piccola struttura e i laboratori dove le donne lavorano,
a mano e con macchinari, consultiamo il catalogo e prendiamo diretta visione
degli articoli esposti a muro in una bacheca: orecchini, collane, pendenti,
braccialetti e altra bigiotteria. Ognuno di noi acquista qualche piccolo regalo
per parenti ed amiche ed io faccio in tempo anche a schiacciare una piccola e
leggera pennichella post-prandiale sdraiato fuori su due cubi di pietra : )
Ma la giornata è ancora lunga: lasciamo Anata alla volta
di Kalandia, altro campo profughi fondato
nel 1948 nei pressi di Ramallah dove
vivono 20 mila persone sotto l’immancabile e costante pressione da parte dei
coloni. Qui visitiamo la cooperativa Peace Steps, progetto non profit
cofinanziato da VDT insieme ad altre
istituzioni ed enti per la lavorazione del cuoio, specializzata nella
produzione di sandali di qualità ... ma anche borse, cinture, portachiavi. Questa
microimpresa sociale utilizza macchinari provenienti dall’Italia e impiega sei
giovani palestinesi, formati sulle tecniche di pelletteria e sulla gestione
d’impresa. Non è giorno lavorativo e abbiamo così tutto l’agio per esaminare i
prodotti e, naturalmente, anche qui fare incetta di regali.
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La tomba di Arafat |
Lasciando Kalandia ci fermiamo nella vicina Ramallah per una camminata tra le frenetiche e
affollate vie del centro che si sviluppano intorno la principale Piazza dei
Leoni e lungo le quali spiccano i pittoreschi venditori di tè dotati, a mò
di faretra, di “pratici” e giganteschi bricchi con valvola per l’erogazione sul
davanti. Un consueto succo dissetante prima di una veloce visita alla Muqata,
il complesso immediatamente alle porte dalla città che ospita la tomba di Yasser Arafat, ornata di
fiori e sorvegliata da due guardie fisse ai lati. Siamo gli unici visitatori,
almeno in questo momento, ma anche la gentilezza e la disponibilità della
giovane guardia all’ingresso, che comunque ci segue passo passo tenendoci
sott’occhio, denota che non ne passino molti e di frequente da queste parti.
Anche per la sera è in programma un suggestivo appuntamento
culinario/istituzionale e cioè l’incontro con cena presso il campo beduino di Harara. Con noi c’è
anche Inam col novello marito e ritroviamo un po’ tutti i ragazzi di VDT
conosciuti in questi giorni, Maria Luisa, Natalia, Alberto insieme a Giulia,
Emanuela e Dario, illustratori italiani anche loro presenti per
un altro progetto rivolto alla formazione e allo scambio con
giovani illustratori palestinesi. C’è anche Suor Alicia delle Suore Comboniane diBetania, molto attive sul territorio. Arriviamo sulla Mahmoud-mobile
che ci scarica in pieno deserto quando ormai è l’imbrunire, il cielo
completamente stellato e le luci di Gerusalemme in lontananza; soffia una
fresca e piacevole brezza notturna e tutto il contesto ha qualcosa di magico.
Il tempo di superare a piedi un paio di piccole dune in compagnia di qualche
ragazzo del campo (alcuni già incontrati a Khan Al Ahmar e in abiti rigorosamente “occidentali”) e siamo
al villaggio beduino, dove veniamo accolti tutti sotto una grande “tenda” (più
che altro una struttura in tubi e teli) appositamente eretta per l’occasione,
dove ci sediamo tutti intorno in una ampio cerchio sul manto di tappeti e
veniamo subito rifocillati di caffé dai solerti e riguardosi ragazzi beduini.
Ci attende il Mukhtar locale, lui sì in Bisht e kefiah d’“ordinanza”, insieme a
qualche suo “collaboratore” e a Abu Suleiman, altro cooperatore locale
di VDT che anche in questo caso fa da tramite (e non solo) con la lingua
inglese. Anche qui ci viene descritta
un’esistenza a dir poco molto difficoltosa e ai limiti (e oltre) del possibile
e l’idea generale che mi faccio (anche dopo quanto già visto e sentito) è che
le comunità beduine “godano” di una considerazione ancora minore (per non dire
meno del nulla) rispetto a quelle palestinesi agli occhi dei governi mondiali,
in primis israeliano e indirettamente degli altri. La vita di queste comunità è
un susseguirsi quotidiano di vessazioni, pressioni e negazioni dei più basilari
diritti civili, basti solo vedere come e dove vengono continuamente segregate
territorialmente tagliandone ogni forma elementare di approvvigionamento, acqua
prima di tutto. Anche l’assistenza medica è pressoché nulla e lasciata
all’esclusiva iniziativa di associazioni e affini. Anche VDT, insieme al comune
di Milano, ha già provveduto all'acquisto di una jeep per garantire gli
spostamenti da queste comunità beduine verso i servizi di base, soprattutto
sanitari e di emergenza per l’appunto. C’è anche un altro progetto di un unità
mobile sanitaria, una vera e propria clinica mobile in questo caso, di cui il
prototipo è in via di ultimazione. In caso di
emergenze (non rare viste le condizioni
di vita) ovviamente devono essere richiesti (e motivati) vari e lunghi permessi
per poter recarsi negli ospedali attrezzati di Tel Aviv o Gerusalemme,
burocrazia che ovviamente fa a pugni, appunto, con l’urgenza delle richieste
stesse, in alcuni casi spingendosi fino alle estreme conseguenze per gli
interessati :/
Ai beduini, in pratica, non è permesso prendere la benché minima
iniziativa di qualsivoglia genere, costantemente sotto controllo e minaccia (di
terra ma anche aerea) del governo israeliano. Ci viene spiegato che esistono
persone stipendiate appositamente ed esclusivamente per girare quotidianamente
gli accampamenti e controllare, ed eventualmente segnalare e far abbattere
immediatamente, qualsiasi sorta di minima nuova edificazione; la stessa
struttura dove siamo ospitati è stata eretta per l’occasione a seguito di
autorizzazione e, ci dicono, deve essere smantellata subito il giorno seguente.
E a diretta nonché tempista comprova di tutto ciò, ecco che sulle nostre teste
sentiamo presidiare veloci almeno un paio di elicotteri … evidentemente
“qualcuno” ha a cuore le sorti del nostro incontro ; )
Siamo così coinvolti dai discorsi e le domande che comincia a
farsi tardi per la cena, che infatti i solerti ragazzi beduini ci servono
quando ancora stiamo dibattendo … evidentemente anche il Mukhtar
comincia ad avere appetito : ) Ovviamente ci viene servito … Mansaf!
… o comunque una pietanza a base di carne e riso : )
Da tutti i discorsi fatti emerge con un po’ di sorpresa
personale una realtà beduina a metà tra la tradizione e la consapevolezza che, così come è sempre
stata la loro esistenza, questa non potrà avere un lungo futuro in questo
contesto. Le gerarchie, infatti, sono sempre molto importanti: la posizione
predominante del Mukhtar e degli uomini anziani, il rispetto e
l’obbedienza dei giovani, il ruolo delle donne all’interno dei nuclei familiari
(donne che infatti non vediamo in quanto, a detta dello stesso Mukhtar,
lasciate volontariamente all’interno del villaggio), ma v’è anche la coscienza
di dover dare un futuro diverso (pur nel mantenimento delle radici) alle nuove
generazioni e il desiderio di rendere a loro accessibili scuole, università e
una vita sociale anche all’interno delle stesse città.
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Il Mukhtar rolla con Obe :) |
Simpatico il siparietto, finita la cena e i discorsi, del Mukhtar
che, incuriosito da Obe intento a rollarsi una sigaretta, dopo averlo osservato
attentamente per qualche minuto, si piega al suo fianco per imitarlo seguendone
le direttive con discreti risultati :)
Arriva così anche qui il momento del lungo e sentito commiato:
il piccolo fuoco acceso dai giovani non lontano dalla tenda risplende e
scoppietta nel silenzio e nel buio della notte beduina, mentre uno di loro
accenna a qualche nota di flauto che, anche se timida e sgraziata, si intona
perfettamente col momento rievocando suggestivamente il sibilo del vento.
Facciamo ritorno al pulmino e all’Hotel. Lasciare di volta in
volta queste persone e questi luoghi ci fa sentire più ricchi umanamente, ma
dopo quello che sentiamo e vediamo ci lascia sempre anche un senso di amarezza
e triste impotenza. Evidentemente la stanchezza è però ora predominante e ci
corichiamo in vista dell’ultima piena giornata di viaggio.
Oggi la sveglia è puntata strategicamente molto presto per
tornare a visitare la Spianata
delle Moschee, rinviata i primi giorni visti i tempi ristretti, evitando
la consueta lunga coda all’accesso. Sennonché, arrivati a destinazione
all’orario convenuto delle 8.00, troviamo comunque la stessa lunga coda che ci
attende :/ Nasce una consultazione interna al gruppo, che così si divide tra
quanti decidono di perseverare mettendosi in coda e quanti (la maggioranza)
avendola già visitata in precedenti viaggi optano per ripiegare su percorsi
alternativi ugualmente meritevoli lungo le mura fino alla Porta di Sion,
per seguire alla Tomba di Davide e al Cenacolo fino al Quartiere
Armeno. Io sono tra i primi e dopo un’attesa di circa un’oretta e i
consueti controlli, accediamo alla Spianata delle Moschee per una veloce
visita dato il poco tempo rimasto e il serrato programma dell’ultimo giorno.
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Spianata delle Moschee |
La superficie della
Spianata è indubbiamente vasta, occupata da molti religiosi, religiose e gruppi
di turisti. Abbiamo solo il tempo di fare una rapida visita da fuori alle due
grandi moschee presenti, la Al
Aqsa (la più
grande di Gerusalemme che può ospitare circa 5.000 fedeli all'interno e attorno
ad essa)
e la Moschea
di Omar dalla cupola d’oro, altrimenti detta il "Duomo della roccia"
e che domina lo scenario su un livello rialzato. Il ritrovo è alla Porta di Giaffa, dove l’impeccabile Mahmoud
già ci aspetta per muovere alla volta di Hebron, distante pochi chilometri a
sud di Gerusalemme.
Dopo il nostro
ritorno in Italia, a chi mi chiede lumi sulla situazione socio-politica
israelo-palestinese consiglio sempre vivamente una visita in questa città per
averne un’idea immediata e quanto più esplicativa senza spendere troppe parole,
soggettive e non sempre pienamente esaurienti. All’entrata in città Serena ci
mette già subito sull’avviso di non spaventarci nell’eventualità si vedano soldati
armati sbucare magari dagli stretti vicoli tra le costruzioni in pietra per poi
scomparire apparentemente nel nulla : | Si avverte infatti un clima un po’ più
pesante e “caldo” del consueto … e non solo meteorologicamente parlando; qui
più che altrove, difatti, i due mondi musulmano ed ebraico risultano molto
ravvicinati e sconfinanti uno nell’altro, con tutti i comprensibili maggiori
attriti del caso.
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Ingresso in Moschea :) |
Dopo una breve
camminata arriviamo infatti al cospetto della moschea locale, la Moschea di Abramo e, tolte le scarpe e le
donne intabarratesi in mantelle con cappuccio di “hobbitiana” memoria,
entriamo visitando le tombe dei patriarchi e delle matriarche (Abramo e Sara,
Isacco e Rachele, Giacobbe e Lea), mentre c’è chi, seduto o sdraiato sugli
immancabili tappeti, è assorto in preghiera e nella lettura del Corano. In particolare,
nell’antro finale si arriva al cospetto di una piccola finestra inferriata
dalla quale è possibile solo vedere a breve distanza una grossa impalcatura
funebre con drappo verde ornato d’oro: è la Tomba di Abramo.
Riusciamo alla
calura esterna, ripercorriamo la via di accesso alla Moschea e “giriamo
l’angolo” trovandoci al cospetto … della Sinagoga! : ) Ovviamente soliti
tornelli e soliti controlli di rito, accediamo al piccolo parco antistante
l’entrata (tra l’altro occupato da una milizia dell’esercito in divisa in
quella che pare a tutti gli effetti una “gita premio”) e saliamo la scalinata
che porta all’ingresso. L’interno sembra quasi più una biblioteca, con un patio
semiaperto al centro e varie stanze con numerosi libri tutte intorno. Da dentro
il patio alzo lo sguardo in alto verso l’apertura al cielo e vedo, aldilà della
rete protettiva … la mezzaluna musulmana sulla cupola della contigua Moschea! :O Ciò non bastasse, entro in una stanza “al
cospetto di una piccola finestra inferriata dalla quale è possibile solo vedere
a breve distanza una grossa impalcatura funebre con drappo verde ornato d’oro”: esatto, è proprio la stessa Tomba di Abramo vista da dentro la Moschea! :O
Lasciata anche la
Sinagoga, percorriamo la stretta via del Souk arabo,
dove il gruppo un po’ si disunisce e, unica circostanza in tutto il nostro
viaggio, alcuni ragazzi tentano con troppa insistenza di venderci souvenir palestinesi
seguendoci passo passo anche dopo aver acquistato (uno di loro ci seguirà fino
a quasi dentro il pulmino!). Un ragazzo mi si avvicina e sembra più
interessato a parlarmi piuttosto che a vendermi qualcosa; nel suo discreto
inglese tenta di spiegarmi le loro condizioni di vita invitandomi a rendere
testimonianza una volta tornato in Italia. In effetti, alzando lo sguardo, si
nota una rete protettiva lungo tutto lo stretto vicolo del Souk e sopra
di questo le abitazioni dei coloni con tanto di onnipresenti bandiere con la
stella di David. Anche questa è una strategia consolidata e diffusa da parte
dei coloni, ovvero quella di occupare le abitazioni più alte per relegare
sempre di più la comunità araba. Mi dice di seguirlo infilandosi in un piccolo porticato
laterale, affinché io possa prendere visione di dove e come sono costretti a
vivere. Da lì imbocca una scalinata e arriviamo davanti le porte di due piccole
stanze (in una c’è anche un uomo che dorme) dicendomi che lì vivono undici
persone. Mi spiega che a queste famiglie vengono “offerti” spesso delle somme
in denaro affinché liberino questi locali e, a seguito del loro rifiuto, membri
dell’esercito israeliano, a loro totale discrezione, irrompono con la forza di
tanto in tanto per essere più convincenti. Senza accorgermene saliamo un’altra
rampa di scalini e ci troviamo sul piccolo terrazzino sulla cima, dove mi
mostra la cisterna dell’acqua con fori di proiettile. Mi guardo intorno e, tra
i tetti circostanti, vedo un paio di torrette di controllo con guardia armata
annessa. A questo punto realizzo, non senza un filo di apprensione, che sono
sulla cima di un’abitazione araba circondata da coloni e soldati armati israeliani,
per giunta insieme ad un arabo e, prima che a qualcuno di questi venga in mente
di fare un’azione dimostrativa (vista la facilità con la quale le intraprendono
e visto che anche i miei tratti somatici potrebbero trarre in inganno), mi
affretto a ridiscendere le scale e raggiungere di nuovo il gruppo salutando il
mio nuovo amico.
Col pulmino ci spostiamo verso la parte più centrale della
città, dove pranziamo al King of Falafel, take-away di cucina locale.
Prima di lasciare la città sostiamo anche al Tamimi Ceramics, laboratorio di ceramiche tipiche
dell’artigianato locale, dove anche ci prodighiamo in acquisti e regali.
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Qui giacque Gesù |
L’ultimissima tappa del nostro lungo e intenso viaggio è
riservata a Betlemme e alla Basilica della Natività, dove
giungiamo nel tardo pomeriggio. All’interno è in corso una cerimonia ortodossa
e l’accesso a quello che viene considerato il luogo della nascita di Gesù
Cristo avviene attraverso un portone sulla parte destra del colonnato, dove
sostiamo in attesa diversi minuti prima dell’apertura insieme ad altre persone
radunatesi nel frattempo. Il portone dà su un altro androne appena a lato
dell’altare principale e da lì si scende (molto pazientemente visto il numero
di persone) attraverso degli scalini passando per una stretta apertura fino a
un paio di stanze sotterranee. Qui, sotto un dipinto raffigurante la scena
della natività e un altro raffigurante l’avvento dei Re Magi, c’è un piccolo tabernacolo,
sotto la cui cavità è raffigurata una stella a 14 punte indicante proprio il
presunto luogo dove giacque il Nazareno in fasce. Qui la gente si accalca ma senza
isterismi e si genuflette in adorazione.
Alcuni del gruppo, avendo già visitato in passato anche la Basilica, hanno preferito
tuffarsi nel souk locale per le ultime spese e ci si ritrova quindi
tutti nell’ampio piazzale antistante la Basilica quando ormai è il tramonto e il sole
scende lentamente dietro il Minareto che, ovviamente, si staglia proprio di
fronte alla Basilica, sull’altro lato della città : )
Torniamo all’Hotel e i pochi irriducibili che ne hanno ancora le
forze si danno appuntamento, dopo la doccia e una veloce cena in albergo, per
un’uscita finale prima dell’ultima atroce levata per essere all’aeroporto di
Tel Aviv per le 4.30 … le canoniche 3 ore prima del nostro volo delle 7.30,
anche presagendo dei controlli ancora maggiori rispetto all’andata. Ovviamente
io sono del gruppo e ci rechiamo al ristorante Al
Azhar della prima
sera per un’ultima Taybeh, l’unica birra
prodotta in Palestina il cui lungimirante proprietario e concepitore allestisce
perfino una vera e propria Oktoberfest
con tutti i crismi proprio a Taybeh, città della Cisgiordania che dista 30 km a Nord-Est di
Gerusalemme.
Torniamo in albergo per concederci qualche ora di sonno prima
del definitivo congedo. La sveglia è meno terribile del previsto e in strada ci
aspetta come sempre puntualissimo il grande Mahmoud
col suo pulmino. Percorriamo le buie e ancora deserte strade di Gerusalemme Est
e all’aeroporto di Ben Gurion salutiamo sentitamente
Mahmoud scattando un paio di foto
veloci con lui. I controlli, contrariamente alle previsioni, sono molto meno
puntigliosi del previsto, quantomeno ai bagagli. Il pre-controllo passaporto
invece è più minuzioso, col funzionario El
Al che tiene la mia foto sul passaporto aperta a fianco del mio viso per
meglio verificare, fino a che, evidentemente non convinto, mi chiede di
mostrargli anche la carta d’identità : )
L’avventura è davvero finita. A Malpensa ognuno prende la
propria strada, ma credo ci sia la consapevolezza in tutti noi di aver trovato
dei formidabili compagni di viaggio e di aver vissuto un’esperienza veramente
per pochi. Molto spesso quello che abbiamo visto e sentito non ci è piaciuto,
ma sicuramente ora ognuno di noi ha preso coscienza in modo diretto e “sul
campo” dell’annosa questione israelo-palestinese. Nessuno di noi può prevedere
come si svilupperanno le vicende in questo martoriato fazzoletto di terra;
l’unica cosa che credo abbiamo capito è che la soluzione può essere purtroppo
soltanto politica e deve necessariamente coinvolgere le maggiori potenze della
terra, colpevolmente finte cieche e sorde di fronte a decenni di continui
soprusi nei confronti della popolazione palestinese.
Nel nostro piccolo, noi viaggiatori consapevoli possiamo “solo”
portare la nostra testimonianza e divulgare quanto più possibile quanto abbiamo
visto e vissuto, col pensiero che va ai tanti volti incontrati e lasciati
laggiù; dai bambini ai coltivatori, dai pescatori ai beduini, nella triste consapevolezza
che, come ci disse al porto di Gaza il rappresentante sindacale dei pescatori,
“esiste un popolo in gabbia
a cui si passa ogni tanto un po’ di cibo attraverso una fessura, tanto per non
farlo morire di fame".